Marco un giorno trovò un uovo – un uovo immenso – e divenne felice. Non capita tutti giorni di trovare un uovo così bello. Lo prese e lo portò a casa, indeciso se farne subito una gran frittata. Alla fine preferì metterlo nel frigo in bella vista sul ripiano.

Marco visse con l’uovo alcune splendide settimane. Ogni giorno, più volte al giorno, apriva lo sportello del frigo e la luce illuminava il guscio bianco in un modo che lo faceva sorridere di gioia pura. Spesso lo accarezzava per sentire sotto le dita la superficie liscia e perfetta. Le giornate diventavano sempre più felici e il progetto della frittata – il destino di un uomo e di un uovo – si allontanava sempre più nel tempo.
Un giorno Marco, ancora assonnato, aprì il frigo con particolare forza e l’uovo prima dondolò nel suo contenitore, poi, raccolto lo slancio, precipitò sul suo piede scalzo. L’urlo di dolore fu talmente forte che il frigo si richiuse. Marco raccolse l’uovo da terra e lo guardò come se la sofferenza fisica non fosse nel piede, ma dentro quella perfetta forma ovoidale. Passò i minuti seguenti a dare la colpa all’uovo, poi a se stesso, poi ancora all’uovo. Infine decise che esistevano due modi per lenire il dolore: mettersi i calzini e mettere via l’uovo. Unì le due cose aprendo il cassetto dell’armadio: nascose nel fondo l’uovo e prese un paio di calzini belli pesanti.

Il giorno dopo Marco lo passò pensando all’uovo, ma quello che era successo – il piede ancora gli faceva male – non gli permise di riavvicinarsi.

Una settimana dopo il dolore era passato, ma quando Marco si ricordava dell’uovo, si ricordava del dolore e preferiva cancellare ogni cosa dalla sua mente. Meglio così, si diceva.

Un mese dopo Marco non ricordava nulla della sua vita con l’uovo: né i momenti belli, né i brutti. A essere precisi, non ricordava più nemmeno l’esistenza dell’uovo. Le giornate avevano ripreso a scorrere. Una mattina aprì il cassetto dei calzini e distratto ne afferrò due spaiati, senza accorgersi di infilare il piede destro in un pitone.