Tre cose su di me

Quando ero piccolo ci parlavo. Gli davo del tu, io, alle cose. Avevo la mia forchetta preferita e se alcune volte non la usavo poi dovevo andare a cercarla nel cassetto altrimenti si offendeva. I peluche avevano le loro esigenze e le magliette, be’ le magliette se non riuscivo a infilarle con disinvoltura (cioè finivo strangolato dal buco del braccio o erano sottosopra e dovevo fare un carpiato per rimetterle nel verso giusto) con le magliette, dicevo, finivo proprio per litigare.
Poi sono cresciuto. Credo. Mi ricordo qualche imbarazzo con la forchetta, perché ogni tanto non mi andava di cercarla e la volta dopo non sapevo che dirle. E mi ricordo qualche problema con i reggiseni, più avanti nel tempo, ma non è che poi mi ci mettessi a parlare come con le felpe, diciamo che in quei momenti avevo altro per la testa.
Così, un giorno, ho smesso di parlare alle cose e quando l’ho fatto – questo lo ricordo con precisione – ho pensato: mi creano già tanti problemi le persone, non posso farmene anche per oggetti che da soli non parlerebbero nemmeno.
Per anni ho dimenticato le cose. Ma un giorno mi sono accorto che stavo mentendo a me stesso. Il rumore della serratura di casa, quando fatica a incastrarsi e a chiudersi. L’odore dei libri. Il frigo che si spegne con un colpo di tosse. Il calore dell’hard disk portatile che legge qualcosa per me. Sono tutte cose a cui sono affezionato. Non glielo do a vedere, perché temo che possano diventare di nuovo esigenti. Ma io ci tengo. Quando tolgo lo sporco dalle posate con cui mangerò, quando sistemo una presa di corrente per poter leggere sul divano, sento che le cose si accorgono di come le tocco e mi accolgono, prima ancora che lo facciano le persone.

Sono in piedi, ho trent’anni, sono di fronte a un letto e nel letto c’è una persona che muore. La morte non è più “il nonno è andato via”, né “riguarda gli altri, io sono immortale”. A trent’anni sai tante cose di lei quante ne vuoi sapere. Come di te. Sai quali sono le parole che ti faranno sempre innervosire, come “niente” dopo una frase che non hai capito. Sai che il fastidio che senti alla schiena quando sei molto stanco un giorno non ti lascerà dormire. E sai soprattutto quante e quali sono quelle cose che non vuoi proprio vedere, quanti due più due resteranno senza risultato.
Per non rispondere uso le più disparate tecniche: stancarmi fino a non reggermi in piedi; ascoltare musica a volume troppo alto per impedire ai pensieri di avere voce; girare intorno a una donna bellissima, senza toccarla. Forse per gusto del gioco, forse per paura, magari per sfida.
Ma la morte, il buio, è un corpo magro senza quasi più carne addosso. Una donna nel letto, un’intera cassa di medicinali come scudo e barriera contro qualcosa che è già passato dall’altra parte. Prima di fare la somma e scrivere la soluzione chiudo l’affetto in un contenitore, in modo che nessuna reale emozione mi possa attraversare. Non davanti ai parenti più stretti. Compassionevole, senza esagerare. Di supporto, senza strafare. Una mattina dei miei trent’anni aprirò il coperchio e incasserò di colpo tutto, vergognandomi perché in un modo grottesco sarà un dolore così vitale da darmi piacere.

A volte le tracce che lasciamo sono piene di senso, altre volte sembrano inconsapevoli. Per questo apro i cassetti degli altri. Scusate, non lo farò più (o almeno ci proverò). Esistono straordinarie possibilità per il contenuto di un cassetto che di corsa devi richiudere. Come si fa a resistere?
Se credete che nei cassetti ci sia roba di poco conto, ecco cosa ho trovato negli ultimi: mutande e calzini, aria fritta, lettere, tante cose che poi apri e non c’è più niente, errori e piaceri, guardi e ci cadi dentro, freddo, qualcosa che fa vibrare tutto il comodino, una bibbia insieme al super io e al super te, foto in bianco e nero, fogli e una penna blu, qualcosa che hai mandato in cenere insieme a tutto il comodino, acqua che poi se apri tocca asciugare, buio (ma una lampadina dentro un cassetto, l’hai mai vista?), un libro lasciato a metà, uno brutto e uno che avresti buttato ma i libri non si buttano (forse), l’anello che cercavi, cose che adesso le porto in cantina o che adesso le metto in bella mostra (e solo una delle due scelte vuol dire camminare), mezzo bicchiere mezzo, un intero circo e le clavette, una cosa che fa ridere, un urlo e tante tante tante stelle filanti ovunque.

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Stefano Besi

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