Nulla attira la mia attenzione. E forse è proprio questo che c’è intorno a me: nulla. Non riesco a definire nemmeno il colore di quello che mi circonda, non so nemmeno che ambiente è: se dicessi bianco, non luce, bianco, se parlassi di una specie di nebbia che non è nemmeno nebbia, forse ci andrei vicino, ma la verità è che intorno a me può esserci qualunque cosa: il mio cervello non la vede, non la registra, non vuole neanche perdere tempo a chiedersi dove sono, perché l’unica cosa di cui ho interesse è davanti, perfettamente davanti a me.
Una porta molto grande, rettangolare, in realtà più un buco, un’apertura che dà il senso della voragine, niente stipite, niente che si possa definire in termini di legno, acciaio, maniglia e cardini; ma in questo mare indefinito io so che esiste questo buco, questa porta aperta (e nera). I miei sensi sono tutti rivolti a lei. Questa particolare parte del mondo ha tutta la mia attenzione, ma per quanto mi sforzi, anche da lì, non arriva segnale. Non vedo nulla attraverso. Non sento un rumore, né una corrente d’aria o un odore. C’è come un velo o una tenda a coprire l’ingresso, il dopo, una tenda nera che mi impedisce di vedere oltre.
A un metro dall’ipotetica soglia mi fermo: qualcosa sta uscendo dal nero. Sono persone che appaiono dalla porta, escono camminando come se non ci fosse nulla di strano, alcuni ridono, altri sono seri. Li saluto, perché come nei sogni so di conoscerli anche se non so chi sono. Loro rispondono ma sembrano avere da fare, come quando si ha fretta dopo aver finito un compito importante. Uno alla volta si allontanano e svaniscono nell’indefinito. Resto solo. La porta è ancora davanti a me. Mi appoggio con entrambe le mani ai lati della voragine e resto a pochi centimetri da questo nero che ancora mi chiude la visuale e mi impedisce di sapere. Da dietro dovrei apparire come un Cristo inchiodato su uno sfondo nero. Immobile, resto in ascolto di me stesso, l’unica realtà che riesco a sentire: ora che ho conquistato l’ingresso mi sento più sicuro. Ora è mio. Comunque non riesco ad attraversare. Chiudo gli occhi pensando che la logica sia inversa: occhi aperti nero, occhi chiusi vista. E invece no, gli occhi chiusi sono occhi chiusi e basta. Provo a sentirne l’odore. Esiste, ma non so classificarlo. Sento un rumore, ma non viene dalla porta, da sotto le mie braccia si allargano due ali, scendono lentamente e si spiegano. E allora perché dovrei interessarmi ancora a questa porta? Chi ha voglia di perdere tempo davanti a un mistero quando si può vivere volando?

Con un colpo di braccia mi stacco dalla porta e mi alzo in volo. Batto le ali e prendo quota lasciando dietro di me quella voragine aperta e nera, alzandomi sempre di più e rendendola sempre più piccola, lontana. Poi una virata, giro su me stesso e con un anello perfetto scendo in picchiata verso quel nero irrinunciabile. L’attimo dopo – in volo radente – la attraverso.

Sono in alto nel cielo. Così in alto da vedere una città sulla destra e un’altra più grande sulla sinistra. Vedo strade e fiumi che riflettono la luce del sole. Vedo così tanti colori insieme che rido a voce alta. Volo sui campi, sulle isole di un arcipelago, vedo templi e contadini che curano gli orti. Poi una corrente fredda mi dice che il tempo è finito. Torno indietro, prendo velocità e mi dirigo di nuovo verso quel buco nero dal quale sono venuto. Ma non c’è più, non so più come uscire, e precipito.