C’è sempre del romanticismo nello scrivere. Ti sei chiesto il perché? La risposta potrebbe deluderti, però io te la scrivo in questo post per via di quel tipo di sincerità che porta le persone a essere linciate da una folla al centro della piazza principale della città.

Se io dovessi descrivere dove sono ora ti direi che premo i tasti in una stanza in affitto di Londra. È notte e sul piccolo tavolino ho solo quello che mi serve per scrivere, un bicchiere e un telefono che non prende da cui esce musica senza parole. Ho al mio fianco una finestra del secolo scorso, in legno, che lascia passare uno spiffero gelido che il termosifone non riesce a bilanciare. Anzi, direi che l’aria calda e quella fredda si rincorrono dandomi alternativamente la sensazione del caldo e del freddo. Fuori dalla finestra passa l’overground ogni sette minuti. L’underground invece è nel fabbricato che sprofonda nel terreno un chilometro più in là, ma di quella sento solo il rumore. È simile a qualcosa di metallo che striscia come se avesse fretta. Non vedo la strada perché sono al primo piano. Ogni tanto i fari di una macchina mi ricordano che esiste, ma per vederla dovrei avvicinarmi alla finestra e non lo faccio, perché io ora scrivo. Vedo un lampione affiancato da un albero. E alcune foglie che si alzano col vento.

Il fatto è che io sono l’oste. Quello che non ti dico del vino è che la mia schiena è poggiata sul frigorifero perché lo spazio è poco, che lì a fianco ci sono tre buste di spazzatura che nessuno ha buttato e che i panni faticano ad asciugarsi e quasi sicuramente puzzeranno. Nel bicchiere non c’è nulla di alcolico, perché mi ubriaco facile e poi non scriverei più. Non ho citato il pacco di rotoli di carta igienica che faceva parte del comitato di benvenuto, non ne parlo perché poi dovrei parlare del bagno in comune col resto del piano e del mondo. Non ho detto che scrivo su un iPad e non su una vecchia macchina da scrivere con i tasti tondi e l’inchiostro che macchia il foglio. Non ho detto delle lenzuola e degli asciugamani, perché quelli che scrivono, molte cose, spesso le peggiori, le lasciano ai loro personaggi.