Alla fine è solo un ammasso di ferraglia. Tutti a fotografare, tutti con le facce stupite. Ci sono tante cose che potreste fare per migliorare la vostra vita, tanti luoghi in cui potreste essere, e invece siete qua a perdere tempo.

Perrier camminava nel corridoio panoramico, il punto più alto. Non si avvicinava ai vetri e non tornava agli ascensori: girava al centro del corridoio, evitando le coppie e i bambini, scansando i turisti che si affollavano lungo le vetrate e cercavano di occupare il posto migliore. Ogni due passi, uno sguardo all’orologio. Ogni quattro, infilava una mano in tasca e prendeva il cellulare: forse la suoneria si è disattivata per sbaglio (ma la suoneria era attiva); forse ho ricevuto un impercettibile squillo (ma non c’era nessuna chiamata persa).

Un pezzo d’acciaio attaccato all’altro, una marea di bulloni. Una serie di tetti visti dall’alto. Eppure sono tutti così sovreccitati. Cos’hanno di speciale i tetti che fotografano? Sono solo molto lontani sotto il livello dei piedi.

Perrier torna dove erano seduti l’ultima volta. Un bambino è in piedi nel punto esatto e il padre gli sta facendo una foto: – Sorridi! – Non dice a me, spero.  Se fosse una settimana fa, Perrier si vedrebbe abbracciato con la donna della sua vita. E ora lei non c’è: non è seduta, non lo aspetta in piedi, non è in nessun luogo del giro panoramico. Eppure l’appuntamento era qui. L’appuntamento era qui un’ora fa.

Finirà che resterò solo su questo schifo di Torre Eiffel.