[Quello che state per leggere è ispirato alla musica delle shootin’ stars e nasce da una collaborazione molto lenta ma proficua. Inoltre oggi è anche un compleanno, che non è mai cosa da poco.]

C’era un pazzo vicino al muro che parlava da solo. Mi sono avvicinato ma a qualche passo da lui ancora non riuscivo a distinguere le parole. È innocuo, mi sono detto, guarda a terra spaventato come il più classico dei pazzi innocui. Sono andato più vicino, ma lui ha abbassato il tono della voce, come per non farsi sentire.
Sarei dovuto andare via.
Ho chiesto se aveva bisogno di qualcosa. Senza guardarmi ha continuato a bofonchiare parole di cui non distinguevo la forma. Mi sono avvicinato ancora e ancora finché non c’era più distanza a separarci. Il mio orecchio toccava le sue labbra e lentamente senza potermi fermare i miei occhi erano al posto dei suoi occhi e le mie orecchie erano sovrapposte alle sue. Le nostre mani si muovevano insieme e così le gambe. E parlavo. Parlavo con la sua voce.

…parole che muoiono. Le parole. Alcune muoiono in fretta, cadaveri di discorsi lontani che le trovi e ti sembrano vecchie e ammuffite e le sai riconoscere, anzi, anzi, le eviti, le ridi. Non le dici mai con serietà. Potresti riconoscere un vecchio da quelle parole. Quando qualcuno, ormai, come loro, è vicino alla morte vuole portare con sé più mondo possibile, ricordi, desideri, mani. Sempre due, le mani. Se per puro caso le mani sono quattro ce ne sono sempre due che si staccano poco prima della morte e salutano. Salutano. Ma le parole restano e alcune muoiono, ma restano, come se fossero l’ultimo sospiro. Sono morte, ma restano, e pochi le sanno riconoscere, pensano che siano vive, le parole, ma sono morte. Il verbo salvare per loro non funziona. Non funziona più, il verbo salvare. Usiamo salvare per togliere, sottrarre, impedire. E questo è un crimine. Punito. Dovrebbe essere punito. Salviamo qualcuno dalle fiamme, lo togliamo da lì, dalle fiamme, qualcosa che ci fa male, lo sottraiamo, ci salviamo, impediamo che ci travolga, ci salviamo ancora. Salvare non è così. Salvare è avere, salvare è essere. Salvare è unirsi, è quando ti porto. Forse, se non importa dove, quello è salvare. Io ti porto, da qualche parte, non importa dove. E ti salvo. E mi salvo. Insieme. Non togliere, aggiungere: uno più uno. Questo è salvare. Provo compassione per chi non capisce cos’era salvare, prima che morisse. Compassione. Che è morta, compassione. La parola. Oggi compassione è una maschera di pietà. La pietà è distanza, anche se forse una volta non lo era neanche lei. Distante. Ma poi è morta. La parola. E sta portando con sé: compassione. Stanno morendo tutte, le parole che sommavano una persona a un’altra. E da morte sono spazio. Spazio.

…che significa silenzio. Vuoto. Freddo. E ce n’è una, una parola dico, che forse non è nemmeno morta, non è nata. Perché è tutto. È: ti voglio bene. È: ti voglio. È: per sempre. È: tu sei me. È morta in un modo strano, se è nata, questa parola. Se la dici non è più quello che c’è tra me e te. È quello che è stato per gli altri, prima. Perché volevano un nome. Perché non andava bene io e te. Basta. Basta con questo: noi. Volevano qualcosa da portare con loro. E noi non viene via, non lo puoi portare via se hai bisogno di essere te, da solo, anche per un attimo: se hai bisogno di essere: io. È da allora che lo chiamano così, perché volevano qualcosa da scambiare, io do questa parola a te e tu la dai a me. E va tutto lì dentro. È così facile usare una parola quando è morta. Forse si possono riconoscere da questo le parole morte. Da quanto è facile dirle. Ma io dico aspetta, aspetta, aspetta a mettere in bottiglia, aspetta a guarnire di cornice. Perché le parole muoiono quando sottrai, quando togli. Io dico. Aspetta. Aspetta a dire: amore.